martedì 7 ottobre 2008

MA PERCHE' NESSUNO VUOLE LA GALLINA

Il ministro Gelmini, mia compaesana, è una donna d'azione e quindi agisce.
Per sanare la catastrofica situazione della scuola italiana, che sforna ragazzi ignoranti come capre, la soluzione è risanare i bilanci, quindi tagli, di soldi investiti e di personale. Insomma è un po' come se voi incontraste per strada un vecchio amico e gli chiedeste come sta e lui invece di risponder "Bene, grazie", vi dicesse sorridendo "Ma vaffanculo. Comunque mi dovevi 5€".

Bisogna cominciare da piccoli, dalle elementari se possibile. Maestro unico e 30 per classe, seguendo il modello pedagogico mai più superato del maestro di Cuore di DeAmicis. Senza dimenticarsi delle medie, inferiori e superiori. I ragazzini asini, che non hanno voglia di studiare non saranno più costretti a studiare fino a 16 anni, ma potranno andare nelle scuole professionali. I pofessori sono troppi, quindi per un po' ne assumeremo pochissimi, diciamo 1 assunzione ogni 5 pensionamenti. Questa politica sicuramente ridarà nuova linfa alla classe insegnate, regalandogli quei giovani professori appassionati, competenti e poliglotti, che la Gelmini sogna per i nostri studenti. Già che ci siamo a questo punto possiamo chiudere il Siss, fabbrica di precari mangiasoldi. E poco importa se in questo modo a rapportarsi con ragazzini che hanno dagli 11 ai 19 anni saranno essenzialmente vecchie carampane, che ormai hanno solo una pallida idea del mondo in cui si muovono questi marziani maleducati.
[Un inciso personale, alcune vecchie carampane sono state tra i migliori professori che abbia mai avuto, persone per le quali provo una sincera ammirazione intellettuale e umana. Ciò non toglie che ad un certo punto il divario generazionale diventi incolmabile. I vecchi professori possono affascinare e istruire gli studenti, ma non capiscono più chi si trovano davanti. Ad un certo punto gli studenti diventano marziani. Da qui l'opportunità di un collegio docenti il più eterogeneo possibile dal punto di vista anagrafico.]
Per l'università il discorso è analogo. Secondo l'onorevole ministro i tagli sono necessari perché un sistema che spende il 90% delle proprie risorse economiche in stipendi non è in grado di investire, rinnovarsi e migliorare. Nel paese in Europa che spende meno per l'università e la ricerca, la risposta ai problemi finanziari è quella di spendere ancora meno. Una logica ferrea sostiene questa tesi. Certo il ministro ci tiene a sottolineare che alla ricerca non saranno tolti fondi (solo personale?), che le università potranno convertirsi in fondazioni private (chi investirà, a fondo perduto, nella ricerca di base, le cui applicazioni sono tanto innovative quanto a lungo termine e incerte?), ma soprattutto le università potranno spendere meno, ma saranno libere di spendere meglio (questa battuta l'ha letta sull'Antologia del buon umore della Settimana enigmistica?).

Si potrebbe pensare che queste decisioni sottendano a scasa lungimiranza. A una filosofia del qui e ora tipica dell'arte di arrangiarsi, che tanto caratterizza lo stereotipo degli italiani all'estero. Sacrificare un settore il cui funzionamento non determina un immediato miglioramento della situazione economica, può essere un palliativo efficace, che ridà un po' di respiro in una situazione di difficoltà, ma sicuramente non è una cura definitiva, qualcuno potrebbe addirittura pensare che spiani la strada alla catastrofe.

Secondo me però, in Italia, il problema è in realtà diverso. La facilità con cui tutti i governi (soprattutto quelli di destra ma anche gli altri) sacrifichi il settore dell'istruzione e della ricerca, dipende dalla visione che la nostra società ha di sè e dal ruolo che attribuisce alla cultura.
La Cultura, intesa non in senso lato, ma come visione sistematica della realtà in cui essa stessa è immersa, può essere suddivisa in due branche principali, quella classico-umanistica, cui fanno riferimento tutte le rappresentazioni artistiche, e quella scientifico-empirica. C'è poi un terzo punto di vista, intermedio e che tradizionalmente viene riferito alla cultura classica, che sono le cosiddette scienze umane, capostipite la storia.
Generalmente è opinione comune che la Vera cultura sia quella classica. Un letterato è unanimemente considerato una persona colta e nessuno si stupisce se non è in grado di risolvere una disequazione o se non sa cos'è un mitocondrio. Uno scenziato è considerato colto se è in grado di parlare di arte, letteratura o teatro. E' come se nell'opinione comune la cultura scientifica fosse una cultura di serie B.
Inoltre la cultura classica, pur essendo considerata la cultura per eccellenza, è comunque vista come qualcosa di velleitario e sacrificabile. Alla fin fine un quadro è una superficie colorata, un libro un po' di carta con dei segni neri sopra, un film un passatempo. La cosa veramente importante è avere il pane in tavola (e se possibile il Cayenne in garage).
Ovviamente questo discredito sulla cultura di serie A, getta quella di serie B nel baratro. La ricerca scentifica (e non solo) è vista in Italia come un abbellimento, il fiore all'occhiello di un sistema già altrimenti funzionante. Non come la base da cui partire per renddere il sistema funzionante. Per fare un esempio concreto, se la società (o un'industruia) è una casa, la cultura classica e la ricerca scientifica sono viste come l'intonaco alle pareti, non come le fondamenta. L'impressione è che in generale si pensi: "Se non investiamo in ricerca non vinceremo il Nobel, pazzienza..."

E' palese che in tema di istruzione e cultura in Italia, all'annoso dilemma meglio un uovo oggi o una gallina domani, si risponda sempre con l'uovo. La perplessità resta sul fatto se questa scielta sia dettata dall'incapacità di aspettare o dall'ignoranza sui possibili (anzi quasi sicuri) sviluppi dell'uovo. Io propendo per la seconda.
Eppure la dissociazione tra cultura e società è un tratto distintivo delle civiltà in decadenza. Una società sana e forte è in grado di sviluppare una visione di sè critica ed autoriflessiva, di integrare le conquiste nei diversi ambiti del sapere e concretizzarle in avanzamento tecnologico e sociale. La Cultura (intesa nelle sue tre declinazioni) è le fondamenta della società e va a costruire il substrato indispensabile per il suo progresso.

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